In un mondo sempre più dominato dall’intelligenza artificiale, è legittimo domandarsi: fino a che punto siamo realmente consapevoli del modo in cui le nostre informazioni personali vengono utilizzate?
I nostri profili social, pieni di dettagli quotidiani, sono diventati una miniera d’oro per l’addestramento e l’evoluzione delle IA.
Il problema? Molto spesso questi dati vengono raccolti e analizzati senza il nostro esplicito consenso.
Molti utenti non sanno, ad esempio, che esiste un’impostazione nei principali social network che, se non disattivata manualmente, permette alle aziende di IA di utilizzare foto, post e interazioni per “insegnare” ai loro algoritmi.
Un utilizzo che può sembrare innocuo, ma che pone gravi interrogativi etici e legali, soprattutto quando tali sistemi vengono impiegati per profilazione, pubblicità o addirittura decisioni automatizzate che impattano la vita delle persone.
Recentemente, la Commissione Europea ha ritirato la proposta di direttiva sulla responsabilità civile per l’IA. Si trattava di un testo chiave, pensato per affiancare l’AI Act e fornire tutele concrete ai cittadini danneggiati dall’uso scorretto o dannoso dell’intelligenza artificiale.
Il motivo? Mancanza di consenso politico tra gli Stati membri.
Questo passo indietro ha riacceso il dibattito sulla frammentazione del quadro giuridico europeo. In assenza di regole specifiche, ci si affida ancora a norme tradizionali come l’art. 2043 del Codice Civile italiano (responsabilità extracontrattuale), che però non si adatta bene ai meccanismi opachi e autonomi dell’IA.
Infatti, come si può dimostrare una “colpa” quando il sistema agisce da solo?
Nel tentativo di proteggere le vittime di danni da IA, la giurisprudenza ha esplorato varie strade:
Art. 2050 c.c. – responsabilità per attività pericolose, utile nei casi di IA impiegata in contesti rischiosi (es. auto autonome, sanità).
Art. 2051 c.c. – responsabilità per cose in custodia, che però si adatta male a sistemi digitali dinamici.
GDPR (art. 82) – tutela dei dati personali, con diritto al risarcimento in caso di uso illecito.
Direttiva UE 2024/2853 – disciplina sui prodotti difettosi, ora estesa anche all’IA, ma poco efficace quando i difetti emergono dopo l’immissione sul mercato.
Regolamento UE 2024/2847 sulla ciberresilienza – impone obblighi di sicurezza, ma non prevede risarcimenti diretti.
Il risultato? Un sistema disomogeneo, incerto e spesso inefficace, dove le vittime faticano ad ottenere giustizia.
Mentre da un lato si registra un vuoto normativo, dall’altro l’Europa sta investendo milioni di euro per costruire una vera e propria “Data Union”, come previsto dall’ambizioso AI Continent Action Plan. Con 13 nuove AI Factories in fase di sviluppo (tra cui l’italiana IT4ALIA), si punta a rendere i dati il cuore pulsante dell’innovazione europea.
All’interno di queste fabbriche digitali nasceranno i Data Labs, centri dedicati all’analisi e alla condivisione di dati tra pubblico e privato. Obiettivo: abbattere le barriere all’accesso, facilitare l’addestramento dei modelli IA e garantire interoperabilità tra i vari sistemi europei.
Ma a quale prezzo? L’uso massivo dei dati personali in questi progetti solleva dubbi pesanti sul rispetto della privacy e dei diritti fondamentali. Lo ha ricordato anche Henna Virkkunen, vicepresidente della Commissione Europea, segnalando la possibilità di una futura semplificazione del GDPR per favorire le imprese tech. Un pericoloso campanello d’allarme.
Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Causa C-33/22) ha provato a mettere ordine. La Corte ha riconosciuto che anche nomi e email usati in ambito lavorativo sono dati personali, ma ha anche stabilito che la privacy non può bloccare in modo automatico la trasparenza, soprattutto se c’è un interesse pubblico legittimo in gioco.
In altre parole: la riservatezza non può essere uno scudo per l’opacità. Ogni decisione sull’accesso ai dati deve essere proporzionata, motivata e documentata. È un messaggio chiaro a tutte le amministrazioni, ma anche ai colossi tech che gestiscono milioni di dati ogni giorno.
Nell’attesa di una normativa davvero efficace, è fondamentale prendere in mano le proprie impostazioni sui social, disattivando il consenso implicito all’uso dei propri contenuti da parte di sistemi IA. Non si tratta solo di protezione della privacy: è un atto di consapevolezza e di autodeterminazione digitale.
Ma serve di più. Serve una legge chiara, moderna, che riconosca la specificità dell’IA e che imponga responsabilità oggettive, meccanismi assicurativi e fondi di garanzia. Perché innovare non deve significare sacrificare i diritti fondamentali.
L’Europa ha una scelta cruciale davanti a sé: costruire un futuro digitale guidato solo
dalla competitività, oppure uno che equilibri innovazione e diritti. La direzione presa oggi — tra riforme ambiziose e ritardi normativi — non può ignorare il rischio che, in nome del progresso, si finisca per svendere la nostra libertà più preziosa: quella di sapere chi ci osserva e perché.